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Quando l'appalto non si conclude

E’ noto che la selezione del contraente privato nei contratti con qualsiasi pubblica amministrazione (o soggetti equiparati ad una pubblica amministrazione), fatte salve rare eccezioni, avviene attraverso una procedura di evidenza pubblica che prevede una gara che si conclude con l’aggiudicazione (prima provvisoria e, successivamente, definitiva).
L’aggiudicazione definitiva, in buona sostanza, è null’altro che l’atto formale d’individuazione finale del contraente, destinato alla conclusione del contratto con la pubblica amministrazione.
L’evento, invero, rappresenta un fortissimo impatto economico sull’impresa aggiudicataria che, intuibilmente, può capitare che investa notevoli risorse finanziarie dapprima nelle operazioni di gara e, successivamente, nelle fasi di preparazione dell’esecuzione del contratto.
Pur tuttavia, non è raro che a fronte della conclusione delle operazioni di gara con l’aggiudicazione definitiva la pubblica amministrazione decida di non realizzare l’opera o di acquisire il servizio già aggiudicato (il che può avvenire anche a distanza di un lungo lasso di tempo).
Ovviamente, si tratta di un profilo ben differente rispetto sia alla ipotesi del recesso dal contratto già stipulato, sia dalla facoltà dell’impresa di sciogliersi da ogni impegno in caso di mancata stipula del contratto di appalto entro sessanta giorni dall’aggiudicazione.
La prima ipotesi, già disciplinata a suo tempo dall’art. 122 del D.P.R. 554/1999 (oggi art. 134 del D.Lgs. 163/2006), attiene all’evenienza di un contratto già stipulato, e dispone da un lato la facoltà di recesso della Pubblica Amministrazione dal contratto e, dall’altro, il diritto dell’appaltatore di ricevere un indennizzo commisurato ai lavori eseguiti, maggiorato del valore dei materiali utili esistenti in cantiere ed di una somma pari al decimo dell'importo delle opere non eseguite (richiamando la norma quanto già disposto per gli appalti privati dall’articolo 1671 del codice civile).
Nel secondo caso, a suo tempo disciplinato dall’articolo 109 del D.P.R. 554/1999 (oggi ripreso con modifiche dall’articolo 11, comma 9 del D.Lgs. 163/2006) si prevede la facoltà dell’aggiudicatario di sciogliersi da ogni vincolo nell’ipotesi in cui la stipulazione del contratto non avvenga entro il termine di sessanta giorni dall’aggiudicazione (o il diverso termine previsto dal bando o dall’invito ad offrire).
In tal caso, valorizzando l’esercizio del diritto di recesso da parte dell’aggiudicatario (quantunque giustificato dall’inerzia dell’amministrazione) la norma nega ogni forma d’indennizzo.
Diversa, invece, è l’ipotesi in cui sia l’amministrazione ad esercitare un potere di revoca in data anteriore alla stipula del contratto.
In tal caso, l’amministrazione non fa null’altro che, sostanzialmente, tornare sui propri passi prima della stipula del contratto (e, dunque, prima dell’istaurazione di un rapporto obbligatorio contrattuale con l’aggiudicatario).
Il potere di ripensamento, ovviamente, non può esser arbitrariamente esercitato. Al contrario, la giurisprudenza amministrativa ritiene che il potere di revoca sia condizionato al ricorrere, alternativamente, o di sopravvenuti motivi di pubblico interesse o del mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario (vd. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, n. 4424 del 17 settembre 2008).
Le ipotesi concrete ricorrenti sono differenti: si va dalla sopravvenuta mancata copertura finanziaria (T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 02/10/2014, n. 801) ad un diverso apprezzamento dell’interesse pubblico sotteso all’esecuzione dell’opera o del servizio (T.A.R. Abruzzo L'Aquila, sez. I, 24/11/2014, n. 834) o, ancora, l’accertamento dell’impossibilità di realizzare l'opera prevista per essere mutate le condizioni dell'intervento o dell’illegittimità o invalidità di alcuno degli atti di gara (vd. anche Consiglio di Stato, sez. IV, 15/09/2014, n. 4674)
Invero, la vicenda è ben conosciuta dalle Corti di Giustizia, le quali hanno espressamente affrontato la problematica, a fronte dell’evidente carenza di espressa previsione di legge (diversamente dalle ipotesi esposte di cui agli artt. 109 e 122 del D.Lgs 563/1999 e ss.mm.ii).
Secondo l’orientamento che appare pacifico, nel caso in cui il potere di revoca sia correttamente esercitato, il soggetto aggiudicatario vanta comunque il diritto alla corresponsione di un indennizzo. Il riconoscimento del diritto all’indennizzo viene conferito all’aggiudicatario facendo riferimento al disposto dell’articolo 21quinquies, comma 1bis, della L. 241/1990, ove si prevede che la revoca di un atto amministrativo che incida su rapporti negoziali comporti l’insorgere in capo all’interessato ad un indennizzo parametrato “(…) al solo danno emergente (…)” (sul punto, Consiglio di Stato, sez. V, Sent. 7334 del 6 ottobre 2010).
Si tratta di un mero ristoro, conseguente all’esercizio pur legittimo del potere della pubblica amministrazione, che la giurisprudenza riporta alla figura della cd. “responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione” (così l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con pronunzia numero 6/2005), richiamando il disposto dell’articolo 1337 del codice civile.
La norma, invero, tutela l’interesse del partecipante alla gara a non essere coinvolto in trattative (ossia nella procedura di gara) che poi siano risultate inutili a seguito della revoca dell’amministrazione.

Da ultimo, è intervenuto nuovamente sull’argomento il Tribunale Amministrativo Regionale per la Regione Lombardia, con sentenza numero 1918 del 2 settembre 2015.
In particolare, il Giudice meneghino ha statuito che la previsione della facoltà della pubblica amministrazione di recedere dalla procedura di aggiudicazione già completata non osta alla previsione di un indennizzo in favore del soggetto aggiudicatario, il quale si ritiene giusto che venga ristorato delle spese assunte per la partecipazione alla gara e, soprattutto, per l’eventuale procurata rinunzia a chances alternative.
Il problema, è bene rammentare, si sposta sul piano probatorio (soprattutto con riguardo all’elemento del lucro cessante): l’aggiudicatario non può ottenere il risarcimento del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto non concluso ma, solo, un ristoro commisurato al c.d. “interesse negativo”, limitato al vantaggio derivante da tutte le occasioni perdute per effetto dell’aggiudicazione, la cui ricorrenza è di invero difficile prova (tipicamente consistente nella procurata prova del guadagno che si sarebbe conseguito mercè la partecipazione ed aggiudicazione di altre gare analoghe sul medesimo territorio).
La ricostruzione del TAR Lombardia appare coerente con le premesse e con la normativa vigente, e costituisce un punto di approdo della giurisprudenza amministrativa in materia.
Nel caso trattato dalla pronunzia richiamata, peraltro, la procedura di gara era giunta al suo esito finale, fino all’aggiudicazione definitiva (salva la mancata conclusione del contratto d’appalto).
La pronunzia si pone in piena conformità con l’orientamento del Consiglio di Stato, che riconosce tutela all’aggiudicatario solo allorchè sia effettivamente stata disposta l’aggiudicazione definitiva.
Più volte infatti il Consiglio di stato ha invece negato ogni tutela in caso di revoca della procedura anteriore all’aggiudicazione definitiva, negando sia il risarcimento danni che l’indennizzo ai sensi dell’articolo 21quinques della L. 241/1990 (in particolare, fra gli altri il Consiglio di Stato Sez. VI, Sentenza n. 195 del 19-01-2012).
Pur tuttavia, urge considerare come invece non manchino pronunzie che diversamente si discostano da una tale rigida ricostruzione, riconoscendo tutela indennitaria al candidato anche nelle fasi immediatamente successive alla presentazione della domanda di partecipazione corredata della necessaria documentazione (vd. già richiamata T.A.R. Abruzzo L'Aquila, sez. I, 24/11/2014, n. 834), in applicazione dei generali principi di tutela del legittimo affidamento, di derivazione comunitaria ed ormai sempre più presenti nel nostro “diritto vivente”.

 

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