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Nel pct solo documenti “digitali”

Per come noto, la facoltà di depositare telematicamente gli atti giudiziari è stata estesa a tutti i Tribunali dall’art 44 del Decreto Legge 90/2014, per come convertito con legge 11 agosto 2014, n. 114.
La norma, in particolare, costituisce un importante step del processo di avvicinamento alla totale effettività del processo civile telematico (ormai noto con l’acronimo PCT), che ha quale punto di arrivo l’obbligo di deposito di tutti gli atti del processo unicamente in forma telematica.
Allo stato la norma prevede l’obbligo di deposito telematico di tutti gli atti del processo, ad esclusione di quelli introduttivi del giudizio (che prevedono il deposito della procura del cliente), per tutti i procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione introdotti a far data dal 30 giugno 2014.
I ricorsi per decreti ingiuntivi vanno invece presentati solo telematicamente (si è ritenuto infatti correttamente di avviare la sperimentazione del deposito degli atti introduttivi in una fase – quella monitoria – che normalmente non dovrebbe provocare conseguenze in caso di errori).
Per i procedimenti già in essere alla data del 30 giugno 2014 e sino al termine del 31 dicembre 2014, rimane in facoltà dei difensori scegliere di depositare agli atti processuali ed i documenti in forma ordinaria o telematica (art. 44 del D.L. 90/44).
Successivamente, l’obbligo diverrà universale per tutti i depositi di parte in tutti i giudizi.
Come già segnalato in precedenti articoli, si tratta di un importante passo avanti verso la totale informatizzazione del processo.
Pur tuttavia, le formule normative utilizzate dal Legislatore hanno sollevato non pochi dubbi interpretativi su alcuni passaggi essenziali.
Ad esempio e per un primo aspetto, la giurisprudenza immediatamente successiva alla entrata in vigore della legge si è mostrata estremamente rigida circa il rispetto delle specifiche tecniche dei files depositati telematicamente.
Sul punto, le specifiche tecniche previste dall’art. 34 del d.m. 21 febbraio 2011 n. 44 e imposte dal Ministero di Giustizia con Provvedimento 16 aprile 2014 prevedono testualmente che “L’atto del processo .. è in formato pdf, privo di elementi attivi ... non è pertanto ammessa la scansione di immagini ... è sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata esterna ...” (così l’art. 12 del provvedimento citato).
Il tema, a scapito della sua specificità tecnica, è balzato subito agli onori della cronaca (anche digitale, ormai).
La norma infatti prevede che il deposito deve avere ad oggetto un cosiddetto file “digitale nativo”, ossia frutto del solo salvataggio dal programma di videoscrittura (generalmente file word in formato .doc o docx) in file .pdf, e non il frutto del duplice processo di stampa cartacea e di successiva scansione della stessa.
Si tratta, invero, di un duro colpo alla usuale impostazione dell’avvocato di “vecchio stampo”, abituato a far proprio l’atto attraverso l’apposizione della firma fisica: il file deve essere del tutto digitale, senza alcun tratto di penna “fisica” e senza passare dalla versione “cartacea”.
Per come accennato, i rischi sono grossi: le prime pronunzie in merito infatti hanno sanzionato sotto molteplici forme (inammissibilità o invalidità) i depositi effettuati attraverso l’utilizzo di file non nativi digitali (vd. in particolare Tribunale di Roma, 13 luglio 2014), con tutte le conseguenti decadenze di legge.

Per gli avvocati che hanno anticipato i tempi sono arrivate sanzioni da alcuni Tribunali
Sotto altro profilo, eguale destino hanno avuto gli atti introduttivi che sono stati depositati telematicamente al di fuori dei termini temporali indicati dal D.L. 90/2014.
E’ accaduto invero che alcuni avvocati, anticipando i tempi, hanno depositato in forma unicamente digitale gli atti iniziali (atti di citazione e/o comparse di risposta, unitamente alla relativa procura).
In questo caso, i primi Tribunali che si sono occupati di tali fattispecie hanno però ritenuto non ancora interamente attivo il processo civile telematico, per quanto concerne la fase di introduzione del giudizio (ciò come detto dovrebbe avvenire a far data dal 31 dicembre 2014) e, conseguentemente, hanno rigidamente sanzionato con l’invalidità o inammissibilità il deposito compiuto unicamente in forma digitale (vd. Tribunale Torino, I sez. civ. 15 luglio 2014; Tribunale di Padova, 28 agosto 2014).

Per i professionisti il rischio che gli atti corretti non corrispondano ai criteri informatici ministeriali
La norma infatti allo stato prescrive che “il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche” (ved. per l’appunto l’ art. 44, comma 2, lett. a) del D.L. 24 giugno 2014, n. 90).
Si deve trattare quindi di parti “precedentemente costituite”, ossia dove è già stata effettuata una costituzione cartacea.
Certo non pare corretto punire gli avvocati per (……..) eccesso di zelo, anche perché la ratio della nullità-inammissibilità non è ben comprensibile.
L’applicazione giurisprudenziale della novella spinge tuttavia allo stato ad una (per ora inquietante) riflessione: se il processo, al di fuori dei contenuti obbligatori degli atti, è improntato storicamente al principio superiore di libertà delle forme, i professionisti si trovano ora a fronteggiare il nuovo e sconosciuto nemico del “formalismo digitale” con il rischio che gli atti, corretti e completi, possono esser ritenuti invalidi per il solo fatto di non corrispondere ai criteri informatici disposti dal Ministero.
A giustificazione di un tale orientamento, le pronunzie sin d’ora emesse ritengono che il principio di libertà delle forme receda rispetto alla ipotesi principale in cui la legge richieda una forma determinata, nel qual caso, il mancato rispetto di essa comporta la nullità dell’atto (articolo 121 del codice di procedura civile).
In realtà, la posizione dei Giudici appare giustificata da principi che appartengono più alle regole delle scienze telematiche e digitali che al mondo del diritto: i files che non corrispondono ai requisiti indicati (pdf digitali nativi, sostanzialmente), non sono adeguatamente riconoscibili e “lavorabili” dal sistema e, pertanto, non sarebbero idonei al raggiungimento dello scopo dell’atto.
Resta di fatto che, così ritenendo, nel conflitto fra libertà delle forme e rigidi requisiti digitali, allo stato la giurisprudenza sembra dare prevalenza ai secondi, il tutto in danno della difesa sostanziale delle parti, le quali potrebbero vedere nella riforma un nuovo ostacolo procedurale, anzichè un vantaggio pratico alla gestione della causa.
Sul punto, sarebbe forse il caso di avviare una riflessione sulla istituzione (che non può che essere di fonte legislativa) di un generale potere di rinnovazione dell’atto irregolare, laddove siano state in qualche modo violate le specifiche tecniche del files trasmesso entro un dato termine, con salvezza dei termini di decadenza, prevedendo una sorta di rimessione in termini che pare quanto mai opportuna. Allo stato tuttavia, non vi sono concreti segnali in tal senso.
Vi sarebbe tuttavia allo stato la possibilità di inserire dei correttivi – in sede di conversione - al recente Decreto Legge 12 settembre 2014, n. 132 di riforma della giustizia civile (di cui quanto prima ci occuperemo per un primo breve commento). Potrebbe essere una buona occasione per far sì che il processo telematico parta senza eccessive rigidità, vedremo se la problematica stimolerà qualche deputato.

Carmelo Barreca
Silvio Motta

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