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Appalti e giustizia amministrativa

è stata pubblicata giorno 6.10.2015 la sentenza resa nella causa C 61/14, purtroppo negativa, che tutti gli avvocati amministrativisti attendevano.
La Corte di Giustizia ha ritenuto che “L’articolo 1 della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, nonché i principi di equivalenza e di effettività devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che impone il versamento di tributi giudiziari, come il contributo unificato oggetto del procedimento principale, all’atto di proposizione di un ricorso in materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici amministrativi. L’articolo 1 della direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 2007/66, nonché i principi di equivalenza e di effettività non ostano né alla riscossione di tributi giudiziari multipli nei confronti di un amministrato che introduca diversi ricorsi giurisdizionali relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici né a che tale amministrato sia obbligato a versare tributi giudiziari aggiuntivi per poter dedurre motivi aggiunti relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici, nel contesto di un procedimento giurisdizionale in corso.
Tuttavia, nell’ipotesi di contestazione di una parte interessata, spetta al giudice nazionale esaminare gli oggetti dei ricorsi presentati da un amministrato o dei motivi dedotti dal medesimo nel contesto di uno stesso procedimento. Il giudice nazionale, se accerta che tali oggetti non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente, è tenuto a dispensare l’amministrato dall’obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi.”
La questione pregiudiziale era stata rimessa dal TAR Trento, in un giudizio in cui avevano spiegato intervento le maggiori associazioni di Avvocati d’Italia.
Ricordiamo un attimo lo scenario Italiano.
In materia di appalti pubblici il contributo unificato da versare al momento del deposito del ricorso è pari a:
– 2.000 € quando il valore dell’appalto è pari o inferiore a 200.000€;
– 4.000 € per le controversie di valore compreso tra 200.000 € e 1.000.000 €
– 6.000 € per quelle di valore superiore a 1.000.000 €.
Per il giudizio di appello tali importi sono maggiorati del 50%, ed infine quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale (art. 13 comma 1-quater del .
Quindi se ipotizziamo il caso di un impresa esclusa da una gara d’appalto pubblica di valore superiore ad 1.000.000,00, questa normalmente dovrà impugnare l’esclusione (6.000 €) e poi necessariamente l’aggiudicazione definitiva (altri 6.000 €), mentre in appello se perde dovrà sborsare 9.000 €, col rischio di esser condannata a pagare altri 9.000 €, quindi 30.000 € solo di contributi, oltre alla parcella dell’avvocato, ossia una spesa che potrebbe anche eliminare l’utile d’impresa.
Vi è da dire però che se poi si vince il contributo si recupera (generalmente dall’Amministrazione).
Il Tar dubitava quindi della compatibilità di tale onere tributario con la direttiva ricorsi 89/665 che regola l’accesso ai ricorsi giurisdizionali in materia di appalti.
L’Avvocato Generale aveva concluso per l’accoglimento della questione, ritenendo che tale balzello rappresentasse un ostacolo all’accesso alla giustizia, e quindi ad un “ricorso effettivo”.
La Corte ha rammentato che la direttiva ricorsi 89/665 non contiene alcuna disposizione attinente specificamente ai tributi giudiziari da versare da parte degli amministrati per proporre un ricorso avverso una decisione asseritamente illegittima relativa ad un procedimento di aggiudicazione di appalti pubblici, specificando che secondo la sua costante giurisprudenza, in assenza di una disciplina dell’Unione in materia, spetta a ciascuno Stato membro, in forza del principio di autonomia processuale degli Stati membri, stabilire le modalità della procedura amministrativa e quelle relative alla procedura giurisdizionale intese a garantire la tutela dei diritti spettanti agli amministrati in forza del diritto dell’Unione.
La Corte dopo aver premesso che “Occorre pertanto verificare se una normativa come quella oggetto del procedimento principale possa essere considerata conforme ai principi di equivalenza e di effettività nonché all’effetto utile della direttiva 89/665” e che “I due aspetti di questa verifica riguardano, da una parte, l’importo del contributo unificato da versare per la proposizione di un ricorso in procedimenti giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici e, dall’altra, l’ipotesi di cumulo di tali contributi versati nel contesto di una stessa procedura giurisdizionale amministrativa in materia di appalti pubblici”, si è occupata separatamente dei due aspetti.
Quanto alla prima questione (contributo per il ricorso) la Corte ha ritenuto che “i tributi giudiziari da versare per proporre ricorsi giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici che non siano superiori al 2% del valore dell’appalto in questione non sono tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione in materia di appalti pubblici”.
Nel far ciò però la Corte considera il valore dell’appalto, che è di gran lunga superiore all’utilità economica del ricorrente (utile d’impresa).
Ma la Corte ha superato sbrigativamente tale aspetto assumendo “che occorre indicare, da un canto, che diversi Stati membri riconoscono la possibilità di calcolare i tributi processuali da versare basandosi sul valore dell’oggetto della controversia. D’altro canto, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 40 delle conclusioni, nell’ambito degli appalti pubblici un sistema che imponga calcoli specifici per ogni procedura di aggiudicazione di un appalto e per ogni impresa, il cui risultato potrebbe essere contestato, risulterebbe complicato e imprevedibile.”
Questa che era in realtà la questione di fondo più importante, è stata invece liquidata sbrigativamente: sarebbe bastato tuttavia utilizzare il criterio forfettario del 10 % dell’utile d’impresa, già previsto nelle norme di contabilità pubblica e generalmente utilizzato dai Giudici Amministrativi, per risolvere in maniera certamente più equa il problema.

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